Giuseppe Ungaretti era un amico di famiglia di cui amavo ogni riga e ogni ruga, anche perché leggeva le mie poesie dai tempi delle elementari e mi sosteneva. Ora, un giorno, nell’anno in cui sembrava dovesse vincere il Nobel, mi regalò per Natale un suo libro di poesie. Fin qui nulla di nuovo; ma quella volta gli chiesi una dedica. Mi accontentò.
La dedica diceva: “A Lorenza, inventrice di bellezza nascente.” E’ stato un bellissimo augurio…
E io credo di essere un’inventrice e perciò un’artista. E non il contrario. Credo sia il mio modo di guardare il mondo che fa scaturire in me soluzioni inattese, che costantemente mi rivela altri modi di esprimermi all’interno dell’Arte.
Nell’infanzia, quando tutti vorrebbero essere uguali, io ero fermamente convinta che tutti fossero come me, cioè diversi, tutti, gli uni dagli altri. E proprio perché tutti dicevano che ero diversa io pensavo di essere uguale, nell’unicità che ci conttradistingue. Ho passato tutta la prima infanzia in una tenuta in Toscana e mi ricordo che dicevano: “questa bimba costì l’è differente… l’è piccina ma la capisce”.
L’ho risentito in Brasile, con una “f” in meno, quando ho scelto Bahia per realizzare il mio sogno e costruire un Art Hotel in una cittadina turistica, ma raffinata, di cui mi sono innamorata per il mare caldo e amico e per il blu del cielo, nell’ormai lontano 2007. Manco a dirlo, la maggioranza dei commenti dicevano che anche la mia creatura era come me: “diferente”. Non era una cosa negativa, ma nemmeno positiva. Era una cosa sorprendente proprio perché si vedeva che era diversa.
Comunque, quando ho finalmente capito che la dif(f)erenza esisteva come tale, e non solo come parametro di normalità, e che non sempre era considerata un dono, ne sono stata per un po’ di tempo sbalestrata. Poi mi sono lasciata consolare dallo splendore e dal mistero dell’unicità, quel marchio che ci contraddistingue da ogni altro, e che che non è negato a nessuno.
Da estimatrice ho cominciato a vederla e a carpirla nelle mille espressioni della natura… e a capirla sempre di più.
E mi sono lasciata incantare da tutta quella varietà, intessuta di piccole differenze. Ho capito che sono proprio loro, le Variabili, che permettono di introdurre le variazioni che portano a nuove unicità. Il ché, in un mondo globalizzante, che tutto appiattisce, è quasi l’unica speranza di vera originalità, ossia della capacità di creare qualcosa di nuovo.
Poiché il Nuovo è nuovo solo se lo inventi, e ti appartiene solo per il tempo dell’invenzione. Poi fa la sua strada.
“È dunque questo che chiamano vocazione: la cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo?”
Josephine Baker (ballerina, cantante e attrice)
Darsi il permesso di essere, e ancor più di essere un artista, è una scelta difficile che diventa ineluttabile e liberatoria quando la vocazione combacia perfettamente con l’invocazione dell’anima che reclama, prepotentemente, un atto creativo, di amorosa conoscenza. Ché la vocazione, purché la si segua, senza mai precederla, senza manipolarla, è antidoto certo di noia e abitudini e sempre fautrice di sorprese. E’ come un’onda; se la contrasti ti travolge ma se la cavalchi ti solleva e ti porta. Il tempo dell’onda è pura gioia come il tempo della creazione.
Come tutti credo, ho avuto varie vocazioni. Forse come non tutti, ne ho seguite parecchie. Il mio problema è che, però, molte di loro sembrano eterne. Si alternano ma non scompaiono. Stanno tutte lì e fanno a gomitate per manifestarsi. La vocazione è forte abbastanza per sollevare il tappo del nostro vulcano e fargli eruttare idee, lapilli di bellezza, soluzioni magiche, pezzettini di lucente che ti curano. Ed è sana, buona, giusta perché ti riunisce a quella parte di te capace di inventare.