In genere le domande sono:
Perché scrive? Quando ha cominciato? Cosa scrive? Come trova l’ispirazione?
Se ve lo doveste chiedere, in questo piccolo stralcio di un mio scritto forse troverete qualche risposta.
“Io sono nata che la guerra era finita da quasi sette anni e la paura, il dolore e la fame stavano trasformandosi in parole, poesie e storie che venivano raccontate dagli uni agli altri, oralmente, per non dimenticare né i vivi né i morti.
Allora il tempo era stato appena riconquistato, e in campagna ancora di più, dove si seguivano i ritmi della natura e soprattutto la sera, al tramonto, mentre la zuppa cuoceva nel camino, ci si riuniva intorno al fuoco per raccontarsi le avventure della giornata.
Erano storie di raccolti, e animali, di piccoli incidenti e della loro risoluzione, di piante malate e da guarire, di posti per fare funghi, boschi da tagliare e frutti da raccogliere. In verità parlavano del lavoro del giorno, erano i resoconti del fattore a mio padre – forse noiosi per altri, ma non per me, che seguendolo avevo imparato a conoscere ogni pianta e ogni campo, ogni mucca, asino, coniglio – e di altri, che popolavano la grande tenuta che mio padre curava. Per me che sapevo di ognuno, erano storie preziose e di conoscenza. Comunque, quando si restava a cena in fattoria, l’ora migliore, quella delle storie nuove, era dopo cena. Si cominciava sempre con storie della guerra e della resistenza, dei tedeschi e della paura, dei soprusi e della ribellione, della fame, degli attentati e delle torture. I bambini non erano preservati, anzi, era bene sapessero, per essere preparati se dovesse servire; che ancora nessuno si sentiva al riparo. Ma c’erano anche altre storie, di prima della guerra, e anche di dopo, storie piu dolci, di ritorni inattesi, amori e piccoli successi come quella del Lamberto che era stato in montagna partigiano con mio padre, ma era tornato, si era diplomato geometra e poi si era sposato con la Maria che l’aveva aspettato sempre e ora viveva a Pontassieve e aveva due bimbe e magari lo si andava a trovare in calessino, uno di questi giorni. A volte mio padre raccontava anche dell’Africa, della caccia nel caldo della savana, di misteriosi eventi, di premonizioni e di strani costumi. E persino mio nonno grandpère, che era stato a lungo ambasciatore in Sud America, ci portava lontano, tra le Ande ventose e un mare popolato di foche, pinguini e tartarughe, dove prendeva il tè accampato in mezzo ai lama, avvolto in una coperta di vigogna che ci ha accompagnato ben oltre la sua morte.
Quando si cenava in fattoria, la notte si popolava di lapilli l’inverno, e di stelle l’estate, che si stava nell’aia; e sempre, comunque di storie.
Avevo le mie certezze. Scrivere era una di quelle. A tre-quattro anni ero già brava a raccontare le storie e anche a inventarle. Volevo scrivere una canzone di parole per ognuno dei miei alberi, per poi inciderle su ogni tronco; era come una collana di campanelli che suonavano a seconda del vento. Lo Scrivere era il vento. E il vento ero io. Che suonavo per ogni albero la sua diversità. Era come fargli il ritratto e sapevo che gli faceva bene, e anche a me. Che nel farlo, imparavo a distinguere i suoni e a suonarli… a Scrivere! Per questo ho prematuramente imparato uno stampatello storto e bruttino ma leggibile, e conquistato un piccolo cacciavite spuntato. Mio padre, che era stonato, diceva che erano poesie. Credo avvertisse qualcosa, il ritmo forse, e anche se credo che gli sfuggisse l’armonia, e anche se poco competente, è stato il mio primo estimatore.
Ero anche sicura di amare i colori con una profonda riconoscenza mai sbiadita.
Anche oggi ringrazio questo cielo d’ottobre per il suo azzurro che mi nutre e mi appaga, ma ringrazio anche il verde di quel pino, colori che vibrando in compagnia si fondono in aure turchesi che vedo solo io. E ringrazio di vivere ora e poter scegliere di vestirmi del colore che mi sento ogni giorno, invece che in eterni burka o uniformi e divise sempre uguali.
Perciò non so se lo Scrivere sia sempre stato, per me, un modo di essere, di esistere in mezzo agli altri legato agli anni nella campagna toscana, o se sia una propensione naturale più profonda. Ma quello che so, è che era ed è rimasto un bisogno, al punto che anche prima di saper scrivere, lo facevo lo stesso. Costringevo qualche adulto a scrivere nel mio librino magico quello che dettavo, e poi per risentirlo lo facevo leggere a qualcun altro. Potevano essere parole nuove. O invece parole in musica, a volte in rima. O parole che avevano un suono esteriore ma anche uno interiore che combinavano… e, come i colori, si sposavano. Di queste cose ero sicura, anche se non le avevo imparate, e delle storie che seguendo la saggezza dell’infanzia ho molto raccontato, oralmente, impersonando fedelmente ogni personaggio. Favole, ai miei figli e a molti bambini; ma non solo.
Ma buona parte di tutta quell’urgenza si doveva al mio amore per le storie. Mi piaceva inventarle e ascoltarle. Mi piaceva ripensarle lungamente, invece di dormire all’ora della siesta o guardando il cielo sotto il mio albero preferito fino a che il senso di ogni storia e di ogni personaggio non mi colpiva con il suo carico di avventura, dolore, nostalgia, limiti ed eroismi, amore… fino a provare, attraverso la mia empatia, una tale compenetrazione che mi sentivo pervadere dall’emozione del senso di ognuno fino alle lacrime. Era terribile quell’attimo di totale consapevolezza così più grande di me, quell’emozione che restava intrappolata; inespressa, perché inintelligibile.
Ed ero sicurissima che se non avessi trovato il modo di esprimerla ne sarei morta. Perciò ho cominciato a scrivere e ho continuato sempre. Scrivere mi è stato cura, consolazione, illuminazione, compagnia. Ho molto scritto, ovunque, sui quaderni a righe della scuola o sui diari segreti, come tutti… poesie , racconti, romanzi di cui è rimasto ben poco.
Ma nel frattempo, non ho mai smesso di scrivere, cercando di raccontare le mie storie, sia quelle che mi abitano ora ed in ogni eternità che quelle di passaggio che la vita ti affida. E se continuo a scrivere, è nel tentativo di preservare e trasmetterne l’essenza ed il senso. Per me stessa e per chi lo volesse cercare.