E così, lei lo aveva conosciuto: ora l’Indiano del suo quadro aveva un volto. Ed era proprio la faccia dell’Apache che era nel suo cuore. La stessa del libro che tanto amava da piccola.
Lo aveva conosciuto in uno strano posto, dove si ballava fino alle sei, su tavoli di legno massiccio, gli stessi dove prima si era mangiato; un luogo dove ora regnava una musica allegra su volti felici.
E poi i loro sguardi si erano incontrati nel corso della danza e ognuno aveva sentito la capacità di osare, di sentire, di godere dell’altro.
Lui aveva attraversato la distanza tra loro con un salto leggero continuando a ballare, guidandola nella danza solo con lo sguardo. E in quegli occhi sorridenti lei aveva sentito tante cose.
Lo aveva sentito di puro cristallo, fragile e forte come uno squarcio di eternità, esigente e implacabile e insieme.
E dolce… di una dolcezza che rischiava di non venire mai fuori perché minacciata da mille condizionamenti.
Lei la conosceva; era la tenerezza che affiora, in un uomo, soltanto quando sente di non aver bisogno di difendersi e si lascia andare a essere protettivo come un padre, sorpreso come un bambino o incuriosito come maschio, tanto da esserci tutto, come aspirato dentro l’attimo.
Ma erano le sei, il suo aereo partiva alle nove e non c’era tempo. Non c’era tempo per esplorare il suo sogno e forse era meglio così… non avrebbe mai voluto che fosse scambiato per un impellente bisogno di sesso.
Lei aveva un’altra storia del tutto soddisfacente, anche da quel punto di vista; e le due cose non avevano niente a che vedere.
Lei, dopo tanto tempo, si era emozionata e questa era l’unica realtà importante; si era emozionata perché aveva sentito una vibrazione, una risonanza di quelle che devi seguire.
Oramai aveva imparato a non partire in quarta, ma anche a non rinunciare a vedere la consistenza delle sue emozioni.
Così era tornata a Roma con il suo numero di telefono, qualche suo bacio e quella sensazione di forza, dolcezza e coraggio ma anche di fatica; quella stessa fatica che a lei era assai familiare.
Sentiva in lui molte pulsioni diverse, c’era molto amore attorno a lui ma anche molte delusioni rispetto alla sua idea di amore e di libertà.
Era difficile per lui poter osare l’amore per se stesso. Difficile dover rinunciare alla scoperta di se stesso, per non dover abbandonare coloro che lui credeva dipendessero da lui. E poi, comunque, osare.
Lei sapeva che lui, a lungo e ostinatamente, aveva rinunciato a conoscersi meglio.
Aveva capito anche che lo faceva per non dover soffrire ancora di più per il fatto di essere così diverso da chi lo aveva messo al mondo. Così… strano.
Fino a che, all’improvviso, al solo pensiero di lei non si era sentito più così strano.
In effetti, grazie a quella risonanza, per un momento all’Indiano era parso che gli strani fossero gli altri, soprattutto la sua famiglia, e non lui.
Con lei invece, inspiegabilmente, era se stesso senza averne vergogna, pentimenti, rimorsi.
Anzi, sentiva che lei gli aveva ridato la fierezza di essere quello che vedeva riflesso negli occhi incredibilmente dolci della Tigre.
l’Indiano non voleva dimenticarla, ma nemmeno attaccarci anche altri sogni.
Perciò era sorpresa che, nonostante tutte quelle realtà che lei avvertiva chiaramente, lui le desse un biglietto che diceva che avrebbe voluto conoscerla meglio.
Lei sentiva che era davvero così e non capiva come era possibile che uno così bello, giovane e incasinato, avesse nonostante tutto voglia di conoscerla.
Insomma… Era tornata a casa con questa voglia di lui e la sua emozione profonda e sconosciuta.
E aveva dipinto un quadro con un cerchio magico e un grande fuoco e, sopra, la notte e le stelle gialle e l’Indiano seduto di spalle con una gamba sull’altra.
Per parecchi giorni l’Indiano aveva scrutato nella notte scura e lei non sapeva se avrebbe mai avuto voglia di vedere altro.
In quel caso, lei avrebbe fatto un Falco per lui, per non lasciarlo così solo, come in fondo si sentiva sempre anche lei.
Poi un giorno lei lo aveva chiamato, aveva pronunciato il suo nome che le piaceva tanto, e lui le aveva detto che quella voglia continuava e che lo stava torturando.
Lei aveva sentito ancora una volta che era vero ma complicato.
E questo le aveva fatto un po’ paura e aveva deciso di fare il Falco sulla spalla dell’Indiano.
Ma poi ci aveva pensato ancora, conscia che non si può mettere un Falco, così, sulle spalle di uno, senza dirglielo.
Nel frattempo era arrivata una sua lettera.
In verità era solo un foglio giallo con scritto SAUDADE a caratteri cubitali e sul retro, scritto piccolissimo, diceva di chiamarlo, che aveva perso il suo numero ma non il suo indirizzo, né la nostalgia.
La Tigre aveva pensato che non c’è nostalgia senza il desiderio. Così si era fatta forza e aveva ritelefonato, aveva cercato di essere chiara, di dire in una lingua non sua l’unica cosa chiara della sua emozione: ossia che, anche per lei, continuava.
Lui aveva detto che voleva venire da lei.
Ma questo era complicato per lei.
Lei voleva essere libera, per conoscerlo senza distrazioni; chissà, forse lui pure?
Comunque lei gli aveva chiesto se era contento e se gli sarebbe piaciuto che lei andasse là.
Lui aveva cominciato a sognare e a prospettarle molti momenti insieme; lei aveva sentito che lui ancora credeva nei sogni, ma che la sua stanchezza aumentava mano a mano che se li faceva falciare dalla vita.
Così aveva pensato che, prima o poi, sarebbe andata.
Aveva voglia del suo sguardo e quindi aveva dipinto la tigre di fronte all’Indiano.
E, tra il fuoco e le stelle, i due avevano cominciato a guardarsi.
Era passato del tempo, due mesi forse.
Due mesi densi e intensi, con molte altre emozioni e mutamenti.
Nell’angolo vicino al giradischi, di giorno e di notte, l’Indiano e la Tigre si osservavano, divisi e illuminati da quello stesso fuoco.
Poi un giorno ebbe voglia di contornare il fuoco.
E capì che doveva riattraversare l’oceano e sedersi accanto all’Indiano a guardare le onde e le fiamme illuminare la notte.
Normalmente, l’Indiano non poteva non avere paura della Tigre e la Tigre dell’Indiano.
E invece lei era tranquilla; le era chiaro che loro due erano, ognuno per l’altro, la tregua dal diverso; come fossero unici superstiti di una razza proveniente da un altro pianeta più evoluto, grazie alla preservata libertà di unicità più selvagge.
Perciò che quell’emozione andasse conosciuta, anche a costo che l’Indiano rimanesse solo di spalle, era la sua unica chiarezza.
In mezzo alla folla si erano visti, anche senza aver avuto il tempo per guardarsi davvero, ma persino così si erano riconosciuti.
Quando capita, è importante e ogni altra differenza diventa trascurabile…
Ed è vecchio solo chi non se lo ricorda .
Così aveva deciso di andare, libera come il vento, a casa sua, con macchina in affitto, indipendente.
E, appena aveva fissato macchina, biglietto e casa, si era ammalata.
Dopo un anno di salute totale, per la paura forse, si era presa l’influenza.
Ma era guarita in tempo per partire.
In questa storia aveva trovato il sostegno di molte voci femminili. Le amiche l’avevano aiutata ad andare, accompagnandola persino all’aeroporto.
Questo appoggio era una cosa molto nuova per lei e confortava la sua forza.
Come se la gelosia, l’invidia e il continuo giudizio di sua madre fossero più lievi da sopportare.
Faceva bene dividere la carica con gli altri, condividere un poco delle sue intense emozioni, un poco di tutti quei tesori che quasi la soffocavano, che per lei sola erano troppi e non tutti poteva usarli.
E invece là fuori c’era qualcuno a cui, magari, una delle sue pietre o delle sue idee potevano cambiare un po’ la vita.
“Sono partita”, si dice lei dopo essersi accomiatata da tutti i suoi cari, come fa sempre quando l’aereo si stacca da terra; e così comincia a pensarli attraverso la distanza.
Quanto amore da ridistribuire “per il suo verso” nella direzione di una nuova armonia.
Forse sarà per questo che tutti hanno paura di far entrare nuove emozioni nelle loro vite?
Che se poi non le riordini e ridistribuisci ti si affollano e ti fanno impazzire.
Altra luce, altri tesori, cosa farne dopo averli esplorati?
Come renderli leggeri ed efficaci insieme?
Penso che dopo averli esplorati sono tuoi per sempre e non hai bisogno di possederli, anzi possederli ti appesantisce.
Ma se ti lasci impressionare dalla meraviglia dell’unicità dell’uno e dell’altro, dal miracolo che rende ognuno così diverso, diventi come un albero di Natale pieno di luci che lampeggiano a turno, ma poi ti accorgi che alcuni sono come pezzi dimenticati della tua anima e stanno sempre accesi.
Così, se te li ritrovi di fronte non puoi certo scappare o far finta di niente solo per il rischio di soffrire!
Lei pensava che si soffre sempre quando ci si deve rendere conto che esistono cose nuove, nuovi pensieri, nuovi sentimenti; ma se sei onesto e vuoi vivere bene, non puoi far finta di niente.
Insomma, lei era ormai partita ed era entrata nel tempo unico del viaggio. In quella solitudine dove si è interi al centro di se stessi, concentrati a pensare, sentire, amare, godere, vivere ogni attimo e di ogni indizio del tutto.
Lei aveva molti più anni di lui e molte storie da raccontare. Era lei stessa tutte le sue storie e sapeva che quando fluivano, lei poteva essere irresistibile come un canto di sirene.
Ma sapeva anche che questo accadeva solo quando era possibile un nuovo canto, una nuova chiarezza che illuminasse tutto trasformando ogni precedente equilibrio.
Poiché quella luce viene assorbita e poi riflessa, non solo dall’anima, ma persino dal corpo, fin dentro a ogni goccia dei suoi fluidi, in ogni componente cellulare che con quella luce abbia avuto contatto.
Lei sapeva del potere di trasformazione di quella luce.
Aveva visto tante malattie e capito che la maggioranza delle tante guarigioni, inspiegabili o meno, dipende solo in parte dalla cura. Perché le guarigioni necessitano dell’accettazione del cambiamento.
Solo dopo aver accettato la malattia e averne capito il motivo interiore si può guarire.
Così, almeno in amore, da sempre, la Tigre si era data il permesso di essere così come era, e ogni volta che le accadeva di sentire intorno quella luce, già sapeva che quell’incontro era importante.
Ora l’Indiano sapeva che lei era una donna magica, e sapeva che in lei, per ogni anima riconosciuta, sbocciava, naturalmente, una nuova sirena, inventrice di un amore diverso, capace di bere tutte le lacrime fino a trasmutarle in una musica che parlasse a lui di Lui.
Fino a restare vestita solo dall’acqua del suo canto.
Era quella la forza della sua eterna giovinezza, della sua libertà, della gioia, di tutto. Infine, era la voce della sua anima che le cantava la trama cangiante di quell’amore di velluto materno che non aveva mai avuto, ma che era uscito da lei appena aveva visto i suoi tre figli.
La prima volta era stata una femmina. Una femmina da amare: che meraviglia! Che scoperta! Che novità!
Però, per lei che aveva conosciuto così bene suo padre, e amato così tanto gli uomini e la loro diversità e, anche se lui poteva non essere d’accordo – lo era raramente – suo figlio, non aveva avuto certo di meno.
E ora la piccoletta rinnovava il suo patto con la luna.
Pensava ai suoi figli e sentiva dentro quell’amore incondizionato per il tutto.
Appena arrivata voleva respirare ogni pino, ogni filo d’erba, ogni onda e sapeva già che, come al solito, non ci sarebbe riuscita.
Non quanto avrebbe voluto.
Energia e amore… un po’ di solitudine.
Finalmente era in viaggio!
Ma poi il suo vicino si era presentato. Era un avvocato italiano sposato con una portoghese, uno del suo ambiente col cognome composto e conosciuto. Le sue chiacchiere l’avevano distolta dal suo passaggio interiore, così quando era scesa non si era preparata e tutto era lento e sempre un po’ afflitto; l’affitto della macchina, i bagagli, i sorrisi.
Eppure era felice perché tutto comunque stava accadendo. E poi la notte, il sollievo e il timore di non essere all’altezza della sua indipendenza.
Aveva vagato nel buio, era andata a vedere il mare, si era persa e ritrovata, la sua casa non era ancora libera e così era andata a dormire da un’amica.
Ed ecco che al semaforo vicino alla stazione di servizio, vede Jaime come sospeso in aria, in un cartellone traslucido.
Lui, il suo amico portoghese musicista che era morto da poco, proprio lì, con la moto.
Lei non lo pensava affatto in quel momento, ma lui era lì sorridente e diceva “Ciao Lorenza, sei qui” con quel tono solo suo.
E lei fa “Ciao Jaime”, glielo fa con la mano, un cenno… e poi scoppia a piangere lì all’incrocio e, quando rialza la testa, lui è scomparso.
Pensa che dev’essere per via delle sue lacrime, lui era così felice… pensa che Jaime è morto davvero e che le dispiace di non averlo più in giro, anche se a quanto pare lui in giro ci va ancora a fare gli scherzi.
Quando l’aveva visto, lei pensava al mare, al suo legame con il Portogallo, alla sua figlia piccola che aveva metà di quel sangue intenso, quasi “isolano”. Lei pensava che era appena arrivata e già aveva cominciato a vibrare diversamente.
Lei di case ne aveva tante, le meglio erano le “non sue”, luoghi dove andare ogni tanto, piccole basi di libertà, sparse per il mondo, dove lasciare pennelli e colori.
Insomma, lei era arrivata e l’Indiano faceva l’indiano. Per fortuna lei non si aspettava nulla; attendeva solo di vedere come sarebbero andate le cose. Aveva sconfitto la parte peggiore della sua anima sentimentale e non aveva più orgoglio, né pregiudizio.
Così lo chiamava a casa ogni tanto, era l’unico numero che funzionava. Il codice diceva che lui era cresciuto in una periferia di quelle dove è meglio non girare da soli la notte.
Non lo trovava mai; in compenso parlava la madre o il padre, brava gente, con i quali si era trovata a ridere di questo figlio che lavorava con le immagini ed era diventato, giovanissimo, operatore in una delle TV nazionali e che inventava sempre cose “strane”.
Lei capì che ai loro occhi doveva essere strana anche lei, ma simpatica.
Lei viveva la sua vita, ballava e stava con le sue amiche al di là dell’Oceano.
Poi, un giorno finalmente riuscirono a parlarsi.
C’erano una serie di numeri sbagliati nelle loro agende.
Lei sentiva che lui voleva vederla ma che non aveva ancora deciso se farlo.
Lei non voleva forzare, perché quello che davvero voleva era che lui sentisse che lei lasciava a lui la decisione, e che lui era libero, anche se lei desiderava incontrarlo e non solo per questo, ma anche per questo era venuta.
Poi una sera lui arriva, affannato, molto sulla difensiva, curioso come un gatto, nervoso e suscettibile, fragile di irruenza ma forte e coraggioso.
Dice che si è iscritto a un corso di pittura per esserle più vicino. Ha portato due blocchi da disegno perché ognuno faccia il ritratto all’altro.
Lei pensa che è raro uno che vuole capire, ma sente anche la sua paura e i suoi pensieri: “se fosse solo sesso… aiuto! “ Come le aveva già detto: “chissà se sarò in grado di soddisfare una donna più grande e quindi più esperta”.
Figuriamoci!
Lei si guarda bene dal dirgli che, nell’incontro, arriva ogni volta come se fosse la prima.
Ma l’Indiano, che ha la faccia di suo nonno, un Indio che viveva in una tribù dell’Amazzonia brasiliana, e siccome è un gran fico, un surfista che ama le onde e la libertà, ha anche paura che non sia solo quello e che poi lei diventi appiccicosa come tutte.
Oppure… è straordinario; il che è assai più terrorizzante perché è nuovo e lui non lo sa, ma lo sospetta, e nonostante la paura è proprio questo che lo attrae.
E a lei pure. E così si studiano, l’Indiano e la Tigre.
Con la scusa del ritratto, si guardano negli occhi.
Si addomesticano a vicenda disegnandosi; e hanno molto tempo per guardarsi e parlare.
Restano selvaggi ma senza timidezze; e, nudi anche di quelle, si trovano ad accogliersi dolcemente.
E la realtà è che si piacciono e si emozionano molto più di quanto avrebbero creduto e non riescono più a starsi di fronte, ai due lati del tavolo.
Come per incanto, si ritrovano seduti accanto, insieme, davanti al fuoco. E lui guarda di nuovo l’immagine che lei gli ha portato, di quel quadro che è stato cosi tanto in divenire, e comincia a sentire che quell’immagine è un pezzo della sua storia.
Lei gli dice che è per lui, se gli piace, solo se gli piace però, che sennò è meglio che lo lasci.
L’intimità del fuoco nel camino è meno selvaggia del fuoco del quadro, e ora i due sono dalla stessa parte del fuoco, vicini, abbastanza per sentire il calore, l’odore, l’abbraccio, il sorriso, le labbra dell’altro.
E poi all’improvviso, i loro corpi cominciano a parlare di attraversare grandi mari ed esplorare pianeti lontani e ogni volta, nonostante la tentazione di restare, si finisce per partire.
Lei canta dentro di sé una strofa di Jovanotti: “viaggiare, sentirsi Marco Polo, sentirsi molto solo”.
E la sua anima balla e canta canti antichi e mai cantati che attraversano il tempo in ogni direzione.
La tigre sente che ognuno di loro è in grado di seguire l’altro in ogni luogo interiore, a ogni profondità.
La Tigre e l’Indiano sentono l’infinito entrare in loro ed annullare ogni stanchezza.
Il suono del telefono irrompe e interrompe la magia.
Lo sente parlare di lavoro, deve andare.
Forse sarà che l’Indiano con le sue carezze da padre e la sua giovinezza non è ancora pronto per la grande onda.
La grande onda alchemica non sarà stasera.
E la Tigre prega che ci sia un’altra sera.
Lui va via felice e perplesso, quello che sente non va affatto d’accordo con quel che gli verrebbe da pensare. La Tigre è comunque molto contenta che l’Indiano sia stato così coraggioso da incontrarla, e spera che quel che lui sente lo porti a rivederla.
Non ne è sicura, anche se il quadro è rimasto a lei; giace sul divano, ma non è stato dimenticato.
Sa dello sguardo di lui prima di uscire… se n’è accorto benissimo, ma ha fatto finta di niente e qualcosa dentro di lei le dice che lui verrà a prenderlo.
Lei continua a fare la sua vita.
Sembra avere una luce speciale.
Gli uomini la fermano al supermercato, nei parcheggi e con una scusa qualsiasi iniziano a parlare.
Lei li ascolta, cerca comunque lo scambio migliore, ma non sente la musica e quindi non approfondisce.
La Tigre è contenta perché una volta di più ha saputo che quella musica inconfondibile ha un senso e che ha sempre senso seguirla; la Tigre è contenta perché pur vivendo “in città”, non ha perso il suo istinto da tigre che le permette di avventurarsi da sola nella giungla.
La Tigre capisce che l’Indiano è proprio quel Falco che lei voleva mettergli sulla spalla.
La Tigre è contenta perché un Falco è libero e non ha bisogno di essere protetto ma solo amato e conosciuto.
Lui deve aver sentito che anche per la Tigre è così.
Ora la Tigre sa che l’Indiano e il Falco sono la stessa cosa;
sa che ogni volta che si ritroveranno sarà più difficile separarsi.
Ma sa anche che bisognerà farlo e che le loro vite correranno disgiunte.
La Tigre ha già un amore così nel suo stesso paese.
Lei pensa a lui spesso, anche in questi giorni; lui sa tutto di lei e questo le fa tanta compagnia. Pensa che per spiegare a lui dell’Indiano basterà dirgli “E’ uno di noi”.
Lei non sa se andare a ballare o vedere lui. Poi quando lui chiama capisce che nonostante i suoi dubbi, la fidanzata, il lavoro, lui vuole davvero venire.
Lui verrà se lei è d’accordo, con i suoi passi lunghi e il suo calore a danzare la grande danza fino in fondo.
Lui arriva come la macchina degli sposi; trascina carabattole di stress e rotture di palle, ma ha portato anche le cassette con le sue musiche e soprattutto un grande scampolo del suo tempo prezioso ritagliato con fatica ma determinazione: una notte.
Quella notte.
Lei vede che in fondo ai suoi occhi si affollano i tamburi e che lui sta per pensare solo alla danza.
Anche così, quando la danza ha inizio, sono sorpresi entrambi; lei sapeva che quella notte nella sua carne, ormai così addestrata a sentire, la vibrazione sarebbe rimasta impressa, ma non pensava che lui sarebbe arrivato fin dentro ai suoi sogni.
Era entrato e svolazzava libero, come forse non era mai stato, felice di ritrovare in lei la sua vera natura.
L’unione delle loro intensità produceva una vibrazione che li assorbiva completamente in quel mondo, spazzando via condizionamenti, età e altrui presenze.
Ognuno, concentrato nella scoperta di quella alchimia rivoluzionaria che li restituiva a loro stessi.
Poi la notte li aveva portati sempre più lontano, nelle viscere della terra, all’origine del seme su un cammino semplice e dritto che osava andare su e giù, solo per circoscrivere un tempo unico e rotondo dove sentendo l’altro conoscevi te stesso, e osando conoscerti onoravi grazie all’altro il tuo patto con il coraggio e l’avventura.
Così, mentre l’anima portava il corpo, i loro corpi si ricordavano di mille altri incontri, ritrovando il gusto di amarsi, mentre combaciano le loro anime.
Meraviglioso. Sempre di più. E semplice, molto semplice.
Le frazioni di tempo unico in cui si sta al centro di se stessi e insieme al centro del tempo di un altro sono i ricordi più preziosi dell’anima, i suoi tatuaggi, che sono lì a conferma del nostro riconoscimento.
E lì lui parlò.
Le disse che voleva parlare perché sapeva che l’evidenza di quella realtà veniva quasi sempre confinata nel luogo segreto del sentire, senza lasciarlo affiorare alla coscienza come pensiero.
E che parlarne gli avrebbe permesso di ricordare la verità di quel piccolo diamante di tempo, delle sue sfaccettature e della sua Luce.
Le disse che conosceva gli strati della paura: quella di conoscere, quella di ammettere di aver conosciuto e quella di lasciare che il nuovo ti cambi.
E le disse che per lui c’era un unico coraggio che riusciva, ogni volta, a vincere qualsiasi paura che stava dentro al suo cuore, molto in fondo, e che era sempre più difficile, per lui, tirarlo fuori.
Poi le disse anche che era felice di averlo fatto con lei, e che mai l’avrebbe dimenticata.
E fu solo allora che lei capì che doveva raccontargli il sogno che aveva fatto e gli disse:
“Ti racconto questo sogno perché ti riguarda. E’ successo l’altro anno.
Ero davanti a una caverna di pietra arenaria. C’era un timpano con dei simboli incisi. Tre casette e due onde. La pietra era di un giallo rosato e la luce dolce e soffusa aveva quella qualità particolare di realtà che già conoscevo come preludio di una nuova coscienza.
Davanti alla caverna c’era un Indiano, bellissimo, con tutte le sue piume colorate che gli scendevano fino alla vita.
Prima pensavo che fosse il grande capo del mio libro, ma ora so che è anche la tua faccia perciò te lo racconto.
Insomma, lui era lì, piantato all’entrata a gambe larghe, e davanti a lui, per terra, c’erano tutte le sue armi: frecce, archi, tomahawk, coltelli e pugnali erano disposti come un’offerta davanti a lui, che, guardandomi dritto negli occhi, mi ha detto:
‘In questa vita e d’ora in poi, io voglio andare senza armi. La mia unica arma sarà il coraggio. Lo sai cos’è? Il COR–RAGGIO è il raggio del cuore.’
Poi mi sorrise, allargò le braccia e telepaticamente mi comunicò le sue istruzioni.
‘Questo coraggio è dentro la tua anima ma ti attraversa il cuore… e da lì si diffonde.
È questo, il raggio del cuore che moltiplica; anzi, sa solo moltiplicare; e non teme perché da sempre è e diviene dentro di te mentre tu non te ne rendi conto, finché non te ne rendi conto.
Così il giorno che te ne rendi conto, usalo con saggezza. Contentati di non fare nulla che non lo moltiplichi a sua volta, non usarlo per chi non lo farà. E quando verrà fuori prepotentemente, vivi intensamente e sorridi.’
Perché nel coraggio è la radice del sorriso; e quando capita di poter percorrere un pezzo di quel raggio insieme è proprio il momento di sorridere molto.”
Glielo disse con un sorriso rapito, lo stesso che lui aveva da quando aveva cominciato a raccontare.
Non ci furono molti discorsi.
Solo due volti illuminati dal sorridersi.
Non riuscirono più a smettere.
Prima, durante e dopo l’amore si sorrisero, tra un bacio e l’altro con gli occhi ridotti a due fessure lucenti.
Lei pensava intensamente attraverso il suo sentire, un pensiero che si imprimeva in lei, come coscienza, in lei, solo intenta a sentire quel sorriso sulla sua faccia e su quella di lui.
Sensazione colorata come in un caledoscopio, l’arancio, il viola e il giallo danzavano e componevano forme cangianti, che, muovendosi sempre più in fretta, diventarono raggi di oro puro che si fusero nel e anche oltre il piacere.
Ricordò di averlo scoperto per caso, mentre dipingeva.
L’oro era e scaturiva proprio da una particolare alchimia di quei tre colori, che, se ben dosati, diventano quell’oro che moltiplica la luce.
E in quel bagno dorato la Tigre vedeva atmosfere, sentiva emozioni che raccontavano dell’Indiano, della saudade, di cose da sempre note all’anima di lui.
Di grandi sogni che bollivano in un pentolone di ghisa grosso e nero da dove riuscivano ancora, a sbuffi, a venir fuori, nonostante il peso del grosso coperchio.
La Tigre sente la fatica dell Indiano.
Sente lo sforzo e la forza che questo richiede e vorrebbe liberarlo di quel coperchio e poi stare a guardare la sua felicità per quella leggerezza inaspettata.
Ma ormai sa che ognuno solleva da solo il suo coperchio, e ci sono storie, come la loro, che sono solo sbuffi, piccoli sollievi… una boccata d’aria per entrambi.
Ma nei loro sorrisi, l’aria divenne spuma di mare e il loro abbraccio univoco respiro.
E L’Indiano e la Tigre attraversarono e si lasciarono attraversare, osando sapere dell’altro e altrettanto di sé, con passione e distacco al tempo stesso, fino a lasciar cantar la danza e danzare il respiro e respirare tutta la danza.
E ancora danzare ogni singolo unico attimo, ogni volto, ogni luce, ogni segno.
Danzare ogni segnale, ogni tangibilità, ogni evidenza, ogni tempo, ogni spazio, ogni dolore, ogni gioia, ogni presenza, ogni sentimento, ogni pensiero.
L’Indiano e la Tigre, nella danza sacra, respirarono la fine dell’esilio, la riunificazione tra cielo, terra, tuono, lampo, Luce. Illuminando anche l’aria che tutto racchiude, che tutto riempie, che tutto attraversa e che da tutto è attraversata e che diviene Lucente.
Leggerezza della danza colorata e iridescente come l’acqua, aria liquida e salata che danza le lacrime, gli umori, il sudore.
Danzare comunque, danzare, diventare quella schiuma di mare che racchiudeva tutto il desiderio della Sirenetta che voleva un’anima, perché sentiva che solo con l’anima si può entrare nell’infinito.
Quella notte L’Indiano e la Tigre si amarono nella conchiglia della saudade, fino a quando le loro anime diventarono arcobaleno.
Quella notte in loro la grande danza operò; nel rullo vibrante dei tamburi trasformarono il ritmo, armonizzando flauti e violini e raccogliendo profumi ed essenze da conservare preziosamente, nel silenzio immobile dell’occhio del ciclone.
Poi la notte finì ma non il desiderio.
Il desiderio di danzare ancora, di danzare per sempre.
Tra tenerezza e passione, il sonno era lontanissimo.
Fecero ancora l’amore nel chiarore dell’alba; dolorosamente.
Consumarono le ultime note del tempo della danza.
Ma nella sofferenza degli ultimi baci, riuscirono a darsi, reciprocamente, la certezza che, seppure da lontano e per diverse strade, sarebbero rimasti eternamente compagni di quel viaggio di ritorno, lungo la spirale di un’identica nostalgia.
Lui prende la litografia del quadro, lo guarda come un vecchio amico; è grande ma lui lo mette con cura tra due cartoni che ha portato.
Quando si separarono, pur sapendo che non si sarebbero mai rivisti, sentirono che quell’inspiegabile desiderio non si sarebbe più placato perché proprio quella ferita era il regalo che avrebbe tenuto viva, in loro, la memoria del possibile infinito e il coraggio di seguirlo.
Così il dolore dell’addio fu sottile, come lo strappo della carta velina che avvolgeva quel reciproco dono.
Scarica il racconto in formato mobi (kindle) o epub(ipad)!